€ 750 – 800 MD.
Questo l’ammontare (annuo) degli investimenti che, stando al rapporto sulla Competitività presentato ieri da Mario Draghi, servono all’Europa se vuole “giocare” la sua partita e avere un ruolo non secondario nello scenario mondiale.
Oggi la UE vale, in termini di PIL, circa il 17% della ricchezza mondiale prodotta ogni anno, compresa (dati al 31/12/22) tra i $ 101.000 MD e i $ 105.000 MD, a pari merito con la Cina, ma dietro gli USA (nettamente primi, con oltre $ 27.000 MD). 3 aree, quindi, valgono da sole oltre il 60% della ricchezza globale, mentre il restante 40% è suddiviso tra alcuni Paesi (Giappone e India 4% cadauno, “resto d’Europa” 7%, Asia e Paesi del Pacifico (ex Cina e Giappone) 11%, Sud America e Nord America (no USA) 4%, Medio Oriente e Africa (tutta!) 3%.
La “partita”, quindi, si gioca, per il momento, fra i primi 3. Peccato che l’Europa, anno dopo anno, continui a perdere terreno verso i competitors: si calcola che negli ultimi 20 anni il gap tra UE e USA sia pari ad almeno il 30%: di tanto sono più poveri i cittadini europei rispetto a quelli americani.
La relazione di Draghi è, quasi certamente, destinata ad un percorso in salita. Per diverse ragioni, peraltro le solite.
In primis mettere d’accordo 27 Paesi con storie diverse e “pesi specifici” con differenze molto ampie è impresa, al momento, quasi disperata: lo è sugli aspetti fondamentali, figuriamoci su quelli ritenuti, al momento, non prioritari (spazio, trasporti, farmaceutica, etc).
Ancora più importante il tema relativo al reperimento delle risorse, cu cui, infatti, già non si sono fatti attendere i distinguo.
Indubbiamente le cifre in ballo sono enormi (l’equivalente del 4,5-5% del PIL Europeo: per fare un paragone, il gigantesco Piano Marshall messo a disposizione, tra il 1948 e il 1951, dagli USA per permettere la ricostruzione dell’Europa dopo le devastazioni belliche valeva circa l’1-1,1% del PIL): pensare ad un piano Next Generation-EU (il PNRR) che si rinnova anno per anno è, per il momento, pura fantascienza. L’accenno del nostro ex Presidente del Consiglio di un debito comune già ha fatto venire “l’orticaria” a qualche esponente di primo piano (vd Christian Lindner, Ministro dell’economia tedesco), secondo i quali non è quella la soluzione (a detta loro i soldi ci sono già, basta saperli usare, “limando” in primis la burocrazia).
Il rischio, pertanto, che la relazione Draghi rimanga fine a se stessa, chiusa in un cassetto, è piuttosto elevato, in considerazione anche del particolare periodo che la UE sta vivendo, con da una parte spinte nazionalistiche sempre più forti, anche in Paesi “trainanti”, come le ultime vicende politiche di Francia e Germania ci insegnano, dall’altra la situazione economica non particolarmente positiva, che potrebbe spingere alcuni Paesi (vedi la Germania) a “concentrare” le attenzioni sulla propria crisi, a scapito dell’impegno europeo. Senza dimenticare quanto potrebbe succedere nel caso in cui, a novembre, Trump dovesse assicurarsi la Casa Bianca, premendo ulteriormente il piede sull’acceleratore America First, rendendo più complicate le relazioni con la UE (per non parlare di quelle con la Cina).
Nessuna dietrologia, però qualche pensiero viene da farlo: “dirottando” il nostro “Super Mario” su uno studio così ampio e complesso come quello della competitività, ci si è “sbarazzati” di un potenziale candidato alla Presidenza della Commissione (per la quale è stata appena rieletta Ursula Von del Leyen). E, come lo studio dimostra, il “Draghi pensiero” è noto: più Europa e più debito comune per abbattere le distanze tra un Paese e l’altro e fare della UE una vera integrazione tra Stati che hanno obiettivi comuni. Per dirla alla Andreotti, “a pensar male forse si fa peccato, ma difficilmente si sbaglia”.
Le chiusure positive di ieri sera a Wall Street (Dow Jones + 1,20%, Nasdaq + 1,30%, S&P 500 + 1,16%) hanno un pochino rasserenato il clima, dopo la pesante ultima settimana.
Questa mattina, dopo un avvio negativo, le borse del Pacifico hanno chiuso, o stanno per farlo, con il segno più.
Il Nikkei di Tokyo ha recuperato sino a portarsi a + 0,10%.
Shanghai fa segnare + 0,40%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng “alza il tiro” sino allo 0,55%.
Poco brillanti i futures, in questi minuti ovunque sotto la pari (– 0,15/0,30%).
Continua il momento di difficoltà del petrolio, ancora schiacciato dalle vendite: WTI a $ 68,41, – 0,54%.
Gas naturale Usa a $ 2,128, – 2,12%.
Sempre intorno ai $ 2.500 (2.512) l’oro, sostanzialmente stabile questa mattina.
Spread a 137 bp, per un BTP al 3,55%, vicino ai minimi dell’anno, con il Tesoro che dovrebbe lanciare, in queste ore, una nuova emissione a 30 anni.
Bund al 2,18%.
Treasury sui livelli di ieri (3,70%).
€/$ 1,1038, con il $ in lievissimo rafforzamento.
Bitcoin che si allontana dai minimi degli scorsi giorni, ritornando verso i $ 57.000 (57.110).
Ps: sappiamo come i ragazzi (ma anche i bambini) siano sempre più “occupati” dall’utilizzo di smartphone, con le conseguenze che, almeno in parte, conosciamo. Ma alcuni numeri fanno (o devono farlo) riflettere.
Oltre il 47% dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni passa oltre 5 ore al giorno al cellulare o sui social. Il 37% lo controlla almeno 10 volte al giorno. Il 73% dei ragazzi tra i 6 (sei) e i 17 anni “naviga” abitualmente su Internet. 3 bambini su 10 tra i 6 e i 10 anni usano normalmente il cellulare ogni giorno. Il 41% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni usa tranquillamente i social (per legge si dovrebbe poter creare un profilo a 13 anni). Conseguenze? Uso di fumo e alcol, ansia, impulsività, insonnia, relazioni difficili con i genitori, scarso rendimento scolastico, etc etc.